sabato 28 ottobre 2017

Histoire d'öOoOoOoOoOo, ovvero: Samen e l'epica farlocca della Francia che conta




La disamina sul nuovo prog metal d'oltralpe è solo agli inizi, miei piccoli smerdaccioni, difatti si torna al freddo e si torna a spararsi delle marlette a sangue ascoltando le prodezze di un popolo che, per quanto odiabile e frascicone, vanta una critica della madonna e un'egregia attitudine quando si tratta di pompare le proprie penombre. Basti pensare alla splendida floricoltura di gruppi post-core che a inizio anni duemila pareva che lo sapevan fare solo loro, il merda cristo. Ma non è questo il giorno in cui vi seccherò gli zebedei con Daïtro e compari, perchè noi oggi si ciàncica di questo gruppo fenomenale che al suo debut sfoggia già un armamentario da toro da monta.
Parlo ovviamente degli öOoOoOoOoOo (esatto, 11 O, la prima con la umlaut, bifolco), e di un disco che, così come la conterranea Zazie del famoso romanzo erompeva dal metrò schiamazzando e ficcando dita in culo a passanti, ci assalta e ci sbrana e ci fa strizzare le budella dal ridere con un ammasso tutto spigoli di metal godereccio e schiamazzi di una fighetta mangialumagotti, quel genere di roba che senti di non poter catalogare come avant ma che di prepotenza ti fa brillare il cervellino come tutti gli ascolti altamente rivelatori che hai fatto in passato.
Prendi solo la prima traccia, Rules of the show: primissimi secondi che ti fan superficialmente pensare a Kaada, poi arriva la voce da gattina e si scivola in un'atmosfera da alt rock allusivo e innocuo con background vocals squittenti e tastierine pacchiane...poi, al 47° secondo parte la bomba di merda, e caschi in un disco dei Pryapisme. Non per la tecnica, figuriamoci: per quanto scoppiettanti e consapevoli di quello che vogliono portare all'ascoltatore, i Nostri possono solo ciucciare i tarzanelli ai ben più estrosi mattatori di Clermont-Ferrand (già trattati QUI!). Il parallelismo regge, però, il misturone di registri è sfizioso e friziona con dovizia le tuberosità dei relatori del Metalzov, quindi promuoviamo con viva e vibrante soddisfazione il neoprog metal franzoso come movimento più fico del decennio, dio anacardo!
Dalla seconda traccia le carte son scoperte: godetevi il giro in giostra tra blast-beattate scriteriate, cori tragicomici e riffoni tamarri degni di rivaleggiare col nu-metallazzo più terrone; ma ci son pure echi di prog validissimo, di anni '90 illuminati e di Primus, per dirne due così. C'è perfino uno pseudo-plagio di un pezzo degli Evanescence (diomerda cosa mi tocca rivangare), ma noi lo prendiamo come un efficiente richiamo pavloviano al degrado nel contesto di un disco eccelso che, come ripeto ancora una volta, ha il raro pregio di non pigliarsi sul serio.
Mai growl e intermezzi sensuali si sono meglio sposati con sezioni a capella, chiptune, violini e voci à la chipmunks. L'ascoltatore eclettico avrà di che lapparsi i mustacchi.
Pertanto, onore e teste vudù ornamentali ai madamemesiè della sempre più degna di plauso Apathia Records, che sembra butti fuori solo robba bbòna.
Mettici pure la copertina da censura e vai col mambo


Il vostro cicciottino sbirulino
Zio Carne

P.S. Noi e gli Illuminati sappiamo bene chi ha suggerito il nome del gruppo in tempi non sospetti:     https://www.youtube.com/watch?v=N92b8BBobHY


öOoOoOoOoOo - Samen / 2016 / Apathia Records

domenica 15 ottobre 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato" - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #10. Sounds from IsraHELL

Gente, eccoci qua per la stesura del decimo nonché ultimo articolo di “Quel tipo è troppo abbronzato”, la SPEZIALE rubrica estiva del team di Metalzov.
Oggi parleremo di cadaveri e di occhi, e più precisamente dei Cadaver Eyes.


Duo stranoforte, che pensate era ancora più stranoforte all’inzio quando era partito come progetto one-man-grind dello sbudellante batterista David Opp. Non ne ho ancor capito la provenienza, si vocifera nell’aria che siano israeliani.
In pratica come funziona, funziona che questi due si mettono così: Opp allo scurone sul palco che percuote con cattiveria i tamburi e urla cose incomprensibili che graffiano le orecchie e arrivano a perforare il cervello, e l’altro elemento, un certo Eran Sachs per gli amici Zax, che semilluminato da una sorte di luce che non capisci se viene dall’alto del paradiso o dal basso dell’inferno si pone esattamente di fronte al batterista però giù dal palco e maneggia con vigore e maestria un no-input-mixer.
Vi dico subito che l’atmosfera è molto cupa e lenta, siamo sul Doom piuttosto rumoroso e a volte confusivo. Sembra di essere in un incubo oppure di celebrare una funzione per lo zio Belzebù. È la musica che metteresti su a tua nonna quando la vedi in giardino che tira il collo alle galline o scuoia dei conigli. O ancora quando brucia i topi che restano incastrati sulla colla o taglia le zampe alle rane.
Ho visto gente debole di stomaco andarsene schifata a vomitare in un angolo la fagiolata mangiata a cena. Ma io, io son rimasta. Secondo me sono da valutare bene perché per essere in due e fare del Doom (poi con gli strumenti che hanno), ci stanno tutti. Magari a Natale intanto che si mangiano i tortelli in famiglia.
Vi lascio un pezzo da sentire sul Tubo, ma come sempre se potete cercate dei live.

Au revoir,
passo e chiudo.

Ljapah Signora Delle Tenebre

domenica 8 ottobre 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato" - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #9. Love In Elevator, non c'entrano un cazzo quelle merde degli Aerosmith

Sotto le insistenti e pungenti istigazioni del caro Zio Carne, amico e collega eminente ma a tratti piuttosto seccante come la muffa che togli con la candeggina ma vien su lo stesso, mi accingo a scrivere UDITE UDITE gli ultimi due articoli di questa prima sperimentalissima rubrica estiva.
Partiamo allora con i Love In Elevator. E’ quasi un peccato parlarne in due righe però ci tengo a metterli qua, in una sfuggente e personale chiusura scritta a due mani dell’estate che fu.
Visti dal vivo quest’estate, appunto, come spalla ai grandi Shellac. Gente dall’aspetto insipido e trasandato, in giro dal 2004, proveniente da Venezia. Sono due? Quattro? Non si capisce bene quanti cazzo sono perché sul palco ne ho contati quattro ma di fatto mi sembra di capire che il nucleo originario sia composto da due soli soggetti. Alle corde vocali una certa Anna Carazzai, a quanto pare anima del gruppo, che dà sfoggio di una voce a tratti infantile a tratti strafottentemente aggressiva da far paura. All’inizio sei indeciso, non sai se ti piace o se invece cosìcosì. Però poi analizzi tutta la storia, l’atmosfera graffiante che creano, il genere musicale che a me persoanalmente piace, un po’ grunge, un po’ il classico post anni ’90, brevi tratti melodici… E senza accorgertene sei ipnotizzato dalla Anna e dalle sue corde (suona pure la chitarra questa, e raccogliendo un po’ di informazioni qua e là pare sia polistrumentista.. Che è? La donna perfetta!).
Tra l’altro una cosa veramente notevole dei Love In Elevator è che oltre a mischiarsi con varia gentenonacaso, come ad esempio niente popò de meno che Francesco Valente e Luca Ferrari, due batteristi che apprezzo molto, sono stati scelti come gruppo spalla da band storiche come Mudhoney e Meat Puppets nei rispettivi tour italiani. Hanno affiancato Verdena, Shellac come detto prima, addirittura gli Art Brut (vedi articolo) e partecipato a vari festival mettendo il culo sugli stessi palchi di gruppi del calibro di Neurosis, Turbonegro e tanti altri.
Cioè questi spaccano il culo e se ne sono accorti tutti. Tre album alle spalle di cui uno, l’ultimo, in italiano e per di più la Anna qua suona pure il pianoforte. Insomma bravi, brutti e cattivi.   
L’articolo è finito, come sempre consiglio di tenerli d’occhio e beccarli da qualche parte perché ascoltarli sul Tubo OK, ma live è n‘altra cosa, su. Bando alle ciance e alle cazzate,

saluti.
Che c’ho da pensare all’ultimo articolo.

Ljapah