domenica 31 dicembre 2017

Risolvere i pessimi gusti altrui con la craniotomia. Il Capodanno Metalzovista!




Dopo un mesetto passato senza ascoltare un gazzo una minghia - perchè amareggiato da un 2017 che, stricca stricca, mi ha dato pochino in termini di dischi fighi e/o emozionanti - cercando robaccia da ascoltare facendo le pulizie in casa sono incappato in questo.
Per inciso, questo è The Underclass, datato 2000, ennesimo EP di una carriera composta quasi solo di EP, dei sibaritici nichilisti ammazzacristi Rudimentary Peni.
Pèm! Psiche riequilibrata all'istante, e pure le ragadi sembra si siano chetate. Tutto l'odio e i sentimenti di ribrezzo marciume e violenza che scorrazzano nel mio sangue si son presi per i mignolini e hanno cantato Kumbaya.
Finalmente il disco di Natale che sognavamo. 12 pezzi, il più lungo non arriva ai cento secondi. Chiasso di strumenti indistinguibili, bombe carta sui rullanti, urla catarrose che scaricano succhi mefitici nelle vostre orecchie rincoglionite dalle festività infami e serve del padron. Potrebbero essere barattoli di mostarda e piatti lanciati su lettini d'obitorio o sassi su lavagne, il concetto non ne risentirebbe per niente. I testi poi... mi limito a dire: sublimi. Siamo sulla media di 10-15 parole per ogni brano, ripetute al vomito, come una specie di Lindo Ferretti pucciato nella ketamina e fulminato da troppi Te Deum.
L'anarcho-punk britannico ai massimi storici - non a caso son citati e acclamati anche dai Neurosis. Puro godimento del letame, cinico, materialistico, da far accaponate la pelle da tanto che è marcio, becero, quasi robotico nella staticità e monotonia del novero di stilemi (nell'attitudine come nei temi e nell'esecuzione) proposti; maestri assoluti della declamazione della merda e del tedio e della vertigine panica che ci assalgono e violentano la nostra mente, in questo periodo dell'anno soprattutto.
E l'ho adorato. Un'iniezione di nichilismo estatico dritto nel cuoricino che ti risolleva e ti fa svuotare gli intestini nel bosco in santa pace.
Gioite, il figlio dell'Uomo è nato, ma ha le chele e dice "Aiutiamoli a casa loro".
Buon anno a ogni Metalzovista unito nella lotta. Mi apposto nel bunker dietro alla mangiatoia; i tre astrologi del cazzo quest'anno cagheranno sangue (come me sotto le feste, d'altronde).
Con gli auguri di un 2018 almeno mediocre,

il vostro salsedinoso
Zio Carne

Rudimentary Peni - The Underclass / 2000 / Outer Himalayan

lunedì 6 novembre 2017

Dalla foresta alla macchina e BAM contro un abete: meditazioni sull'ultima bravata dei Satyricon

Sono stati tra i primi a stornare il passo dai boschi della Norvegia per dirigersi verso una più confortevole auto: blast beat addio, mid-tempo ovunque, sciapi giri rock 'n' roll, e il batterista (da vero animale qual è) perennemente in letargo. Insomma, non che diano fastidio mentre si sta guidando da un luogo A a un luogo B (a parte un lieve sopore) ma ecco...innocui.

Mi accosto alla loro ultima impresa con l'entusiasmo del rabbino per l'impepata di cozze:
Deep calleth upon Deep, copertina discutibile (ops, l'è Munch dio gat...) ma che balza agli occhi nei negozi, mai brutta come l'ultimo Nargaroth [la cui musica gigiona mi garba].
Annoto subito che che non è cambiato sto granché, lo stile dei due vip di Oslo è pressapoco lo stesso da dieci anni a questa parte. Cionondimeno – sarà qualcosa nei giri di chitarra, saranno i tempi ulteriormente rallentati di certe tracce e quelli più inviperiti di altre – la macchina deve aver mancato l'ennesimo tornante e si dev'essere spalmata su di un larice. C'è una certa nebbia, che non si inspirava da un po', che sta filtrando tra le lamiere. 
Oppure, boh, mi piace quel ragazzo perché sto diventando forse ricchione.

S. Mattanza

Satyricon - Deep Calleth upon Deep / 2017 / Napalm Records

sabato 28 ottobre 2017

Histoire d'öOoOoOoOoOo, ovvero: Samen e l'epica farlocca della Francia che conta




La disamina sul nuovo prog metal d'oltralpe è solo agli inizi, miei piccoli smerdaccioni, difatti si torna al freddo e si torna a spararsi delle marlette a sangue ascoltando le prodezze di un popolo che, per quanto odiabile e frascicone, vanta una critica della madonna e un'egregia attitudine quando si tratta di pompare le proprie penombre. Basti pensare alla splendida floricoltura di gruppi post-core che a inizio anni duemila pareva che lo sapevan fare solo loro, il merda cristo. Ma non è questo il giorno in cui vi seccherò gli zebedei con Daïtro e compari, perchè noi oggi si ciàncica di questo gruppo fenomenale che al suo debut sfoggia già un armamentario da toro da monta.
Parlo ovviamente degli öOoOoOoOoOo (esatto, 11 O, la prima con la umlaut, bifolco), e di un disco che, così come la conterranea Zazie del famoso romanzo erompeva dal metrò schiamazzando e ficcando dita in culo a passanti, ci assalta e ci sbrana e ci fa strizzare le budella dal ridere con un ammasso tutto spigoli di metal godereccio e schiamazzi di una fighetta mangialumagotti, quel genere di roba che senti di non poter catalogare come avant ma che di prepotenza ti fa brillare il cervellino come tutti gli ascolti altamente rivelatori che hai fatto in passato.
Prendi solo la prima traccia, Rules of the show: primissimi secondi che ti fan superficialmente pensare a Kaada, poi arriva la voce da gattina e si scivola in un'atmosfera da alt rock allusivo e innocuo con background vocals squittenti e tastierine pacchiane...poi, al 47° secondo parte la bomba di merda, e caschi in un disco dei Pryapisme. Non per la tecnica, figuriamoci: per quanto scoppiettanti e consapevoli di quello che vogliono portare all'ascoltatore, i Nostri possono solo ciucciare i tarzanelli ai ben più estrosi mattatori di Clermont-Ferrand (già trattati QUI!). Il parallelismo regge, però, il misturone di registri è sfizioso e friziona con dovizia le tuberosità dei relatori del Metalzov, quindi promuoviamo con viva e vibrante soddisfazione il neoprog metal franzoso come movimento più fico del decennio, dio anacardo!
Dalla seconda traccia le carte son scoperte: godetevi il giro in giostra tra blast-beattate scriteriate, cori tragicomici e riffoni tamarri degni di rivaleggiare col nu-metallazzo più terrone; ma ci son pure echi di prog validissimo, di anni '90 illuminati e di Primus, per dirne due così. C'è perfino uno pseudo-plagio di un pezzo degli Evanescence (diomerda cosa mi tocca rivangare), ma noi lo prendiamo come un efficiente richiamo pavloviano al degrado nel contesto di un disco eccelso che, come ripeto ancora una volta, ha il raro pregio di non pigliarsi sul serio.
Mai growl e intermezzi sensuali si sono meglio sposati con sezioni a capella, chiptune, violini e voci à la chipmunks. L'ascoltatore eclettico avrà di che lapparsi i mustacchi.
Pertanto, onore e teste vudù ornamentali ai madamemesiè della sempre più degna di plauso Apathia Records, che sembra butti fuori solo robba bbòna.
Mettici pure la copertina da censura e vai col mambo


Il vostro cicciottino sbirulino
Zio Carne

P.S. Noi e gli Illuminati sappiamo bene chi ha suggerito il nome del gruppo in tempi non sospetti:     https://www.youtube.com/watch?v=N92b8BBobHY


öOoOoOoOoOo - Samen / 2016 / Apathia Records

domenica 15 ottobre 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato" - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #10. Sounds from IsraHELL

Gente, eccoci qua per la stesura del decimo nonché ultimo articolo di “Quel tipo è troppo abbronzato”, la SPEZIALE rubrica estiva del team di Metalzov.
Oggi parleremo di cadaveri e di occhi, e più precisamente dei Cadaver Eyes.


Duo stranoforte, che pensate era ancora più stranoforte all’inzio quando era partito come progetto one-man-grind dello sbudellante batterista David Opp. Non ne ho ancor capito la provenienza, si vocifera nell’aria che siano israeliani.
In pratica come funziona, funziona che questi due si mettono così: Opp allo scurone sul palco che percuote con cattiveria i tamburi e urla cose incomprensibili che graffiano le orecchie e arrivano a perforare il cervello, e l’altro elemento, un certo Eran Sachs per gli amici Zax, che semilluminato da una sorte di luce che non capisci se viene dall’alto del paradiso o dal basso dell’inferno si pone esattamente di fronte al batterista però giù dal palco e maneggia con vigore e maestria un no-input-mixer.
Vi dico subito che l’atmosfera è molto cupa e lenta, siamo sul Doom piuttosto rumoroso e a volte confusivo. Sembra di essere in un incubo oppure di celebrare una funzione per lo zio Belzebù. È la musica che metteresti su a tua nonna quando la vedi in giardino che tira il collo alle galline o scuoia dei conigli. O ancora quando brucia i topi che restano incastrati sulla colla o taglia le zampe alle rane.
Ho visto gente debole di stomaco andarsene schifata a vomitare in un angolo la fagiolata mangiata a cena. Ma io, io son rimasta. Secondo me sono da valutare bene perché per essere in due e fare del Doom (poi con gli strumenti che hanno), ci stanno tutti. Magari a Natale intanto che si mangiano i tortelli in famiglia.
Vi lascio un pezzo da sentire sul Tubo, ma come sempre se potete cercate dei live.

Au revoir,
passo e chiudo.

Ljapah Signora Delle Tenebre

domenica 8 ottobre 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato" - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #9. Love In Elevator, non c'entrano un cazzo quelle merde degli Aerosmith

Sotto le insistenti e pungenti istigazioni del caro Zio Carne, amico e collega eminente ma a tratti piuttosto seccante come la muffa che togli con la candeggina ma vien su lo stesso, mi accingo a scrivere UDITE UDITE gli ultimi due articoli di questa prima sperimentalissima rubrica estiva.
Partiamo allora con i Love In Elevator. E’ quasi un peccato parlarne in due righe però ci tengo a metterli qua, in una sfuggente e personale chiusura scritta a due mani dell’estate che fu.
Visti dal vivo quest’estate, appunto, come spalla ai grandi Shellac. Gente dall’aspetto insipido e trasandato, in giro dal 2004, proveniente da Venezia. Sono due? Quattro? Non si capisce bene quanti cazzo sono perché sul palco ne ho contati quattro ma di fatto mi sembra di capire che il nucleo originario sia composto da due soli soggetti. Alle corde vocali una certa Anna Carazzai, a quanto pare anima del gruppo, che dà sfoggio di una voce a tratti infantile a tratti strafottentemente aggressiva da far paura. All’inizio sei indeciso, non sai se ti piace o se invece cosìcosì. Però poi analizzi tutta la storia, l’atmosfera graffiante che creano, il genere musicale che a me persoanalmente piace, un po’ grunge, un po’ il classico post anni ’90, brevi tratti melodici… E senza accorgertene sei ipnotizzato dalla Anna e dalle sue corde (suona pure la chitarra questa, e raccogliendo un po’ di informazioni qua e là pare sia polistrumentista.. Che è? La donna perfetta!).
Tra l’altro una cosa veramente notevole dei Love In Elevator è che oltre a mischiarsi con varia gentenonacaso, come ad esempio niente popò de meno che Francesco Valente e Luca Ferrari, due batteristi che apprezzo molto, sono stati scelti come gruppo spalla da band storiche come Mudhoney e Meat Puppets nei rispettivi tour italiani. Hanno affiancato Verdena, Shellac come detto prima, addirittura gli Art Brut (vedi articolo) e partecipato a vari festival mettendo il culo sugli stessi palchi di gruppi del calibro di Neurosis, Turbonegro e tanti altri.
Cioè questi spaccano il culo e se ne sono accorti tutti. Tre album alle spalle di cui uno, l’ultimo, in italiano e per di più la Anna qua suona pure il pianoforte. Insomma bravi, brutti e cattivi.   
L’articolo è finito, come sempre consiglio di tenerli d’occhio e beccarli da qualche parte perché ascoltarli sul Tubo OK, ma live è n‘altra cosa, su. Bando alle ciance e alle cazzate,

saluti.
Che c’ho da pensare all’ultimo articolo.

Ljapah

lunedì 4 settembre 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato." - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #8. Chi l'ha detto che il jazz non è di Satana? e altre vanvere



Ljapah batte la fiacca (che non è un proverbio finlandese). Pertanto mi tocca di poggiare il culo alla sudata scrivania e momentaneamente mollare inderogabili impegni di cosmica rilevanza, nnaggiacristo.
Vediamo... Cosa consigliare ora, nell'esatto momento della ripresa dall'august blues e del ritorno alle stagionali mansioni monetifere (beati voi in tal caso)?...
Forse un triplete di albummi belli maligni, che sotto una gioviale doccia di polvere pirica e sangue di porco ci riportino al mood autunnal-negromantico che è la base per ogni spirito Metalzovista? ...Mbè? Famo na tripletta lesta lesta allora?
Sì dai, che c'ho una maratona di Gravity Falls da proseguire.



Hors-d'œuvre:   Bohren & der Club of Gore - Black Earth (2002)


Ollà, si aprano le danze! Con il nero catrame percolante direttamente dalle pudenda dell'Avversario in persona, ma perfettamente amalgamato ai toni suadenti di un fumoso club jazzistico di Baden-Baden, i Bohren & der Club of Gore ci regalano un'ora abbondante di obscure jazz all'ennesima potenza; un disco che casca a fagiolo per una loschissima nottata di sigarette accartocciate a rimirare ectoplasmi di fumo al barbaglio di una luna di cobalto, a guardare film òror de paura senza audio e, perchènnò, a lasciarsi andare, ogni tanto, alla sensualità che questo genere di musica riesce a emanare a fiumi e chi ci capisce è bravo, ostiàsa. Un tappeto minimale di contrabbasso e batteria al passo di tank su cui fioriscono con moderazione giretti di tastiere eterei e avvolgenti e caldissime, posatissime frasi di sax.
E quindi, come direbbe il collega Sancio, porcamadonna che buono è.
Se Victoria (2015) di Sebastian Schipper fosse stato girato a Vienna nel 1930, ci sarebbe sta roba sotto tutto il tempo.



Carnazza:   Diamanda Galàs - All the way (2017)


Ed eccolo, ECCOLO, alla fine, dioboia, che mi leccavo le dita da parecchio tempo ascoltando codesta traccia sul Tubo, sperando che la Diamandona ci deliziasse di un bell'albumme live con tutti i clismi ove ritrovare questo gioiello. E bòn, niente che si discosti molto dalla recente produzione di questa meraviglia della natura; ormai sappiamo già in partenza all'annuncio di una release della bella Serpentona che si tratterà o di cover di gospel o di cover di standard jazz, alternati ad installazioni perturbanti in cattedrali a spasso per l'Europa, lì dove l'arte performativa incontra il signor Lovecraft e gli dice "E' sua la Quattro Stagioni per celiaci?"
La Galàs ci trastulla e terrorizza nell'intimo come suo solito, stavolta ridisegnando classici immensi della tradizione jazz e pietre angolari del blues (dalla All the way eponima a The thrill is gone, alla magistrale Round midnight di amoredimamma Thelonius Monk) e trasformandoli nei consueti lamenti da creatura del mondo inferiore, trasfigurazione di cui ha già dato prova d'avere un talento senza eguali al mondo, combinando - come se non bastasse - una potenza della voce sensazionale ad un eclettismo mutaformante commovente e prodigioso che spazia, nell'arco di un accento, dal salmodiare chiocciante al trillo della sirena sventrata.
Se la Galàs che canta You don't know what love is non vi fa tremare come una fogliolina probabilmente avete le orecchie foderate di merda, non è che lo decido io.
Disco cortino, ma contando che è uscito lo stesso giorno di un altro discozzo - sempre della Diamanda bbella ciaciòna nostra - direi che ci va di lusso no?



Caffettino e oppio:   Current 93 - Nature Unveiled (1984)


Grossomodo è un concept su Maldoror.
.
Ho detto: grossomodo è un concept su Maldoror.
Mi pare d'aver detto quanto serve.
Facile ironia a parte, è difficile commentare un album-fiume come questo. Un miasma in forma di solchi incisi, fluente, cavernoso, brumoso, quasi inafferrabile, fatto di urla belluine e concatenazioni di sibili e ronzii disagianti, echi di grotte orrorifiche, mantra e tamburi cimmeri, una vera batteria di guerra dichiarata alle nostre orecchie che si dispiega in 8 tracce interminabili, al limite della sopportazione (e per noi quindi molto appetitose); e il tutto è da imputarsi al diluvio di marciume che il cervello mutilato di David Tibet assembla quando, presumo, non guarda il Motomondiale o non legge la sezione Risate a denti stretti della Settimana Enigmistica. Un'interessante esasperazione di quel filone (è un filone poi?) che è il figlio incestuoso e folle del rivoltante amplesso tra post-punk, gothic, l'industrial più sconcertante e una forma larvale di obscure folk che gnàmmete gnàm.
Questo commento non è un'iperbole: si parla davvero di un ammasso di dissonanze sfasate e gorgoglii ributtanti di carcasse che fumigano in un pozzo di merda di animali. Ma fatto coi contromarroni.
I contenuti ci sono, i sudori freddi ci sono e anche oggi si va a casa coi demonazzi sulla schiena.

A risentirci con le ultime 2 puntate di sta cazzo di rubrica delle mie balle del merda di dio


Il vostro dio cancaro
Zio Carne

- niente dati, lo staff è distratto da perline colorate -

domenica 13 agosto 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato." - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #7. A Ferragosto, una gangbang al Motel Savoy...



Se mi conosco bene, sto disco dovrebbe farmi cagare violento. E dovrei anche vergognarmi come un ladro a consigliarlo in giro. Penserebbero che mi sono infrociato del tutto.



E invece.
Pazzesco eh? Ma io, a differenza di tutte voi merde schifacoglioni, ho un'onestà intellettuale e non mi do un tono. E neanche questi 4 teste di cazzo, a sentire il breve e sciammannato debut. Mi diverto e approvo.
Stavolta il derivativo-glitterato-synthato-fuzzone-revival-shbomballato-pocopocodreampop pare funzionare. 
C'è qualcosa che mi ha messo nostalgia dei Late Of The Pier.
Potremmo arditamente definirli dei Tame Impala che non hanno mai smesso di sborrare.
Attendiamo con fervore da scolaresca un secondo discozzo. E un porno con le 2 tipine, se non si chiede troppo.


Il vostro cialtronico
Zio Carne

Savoy Motel - Savoy Motel / 2016 / bbòòòòhh non c'ho voglia diomerdaa

mercoledì 2 agosto 2017

"Quel tipo è troppo abbronzato." - SPECIALE RUBRICA ESTIVA #6. Senza tanti sfronzoli che fa caldo vi presento i OACAC

TU!
Ami la psiche e la psichedelia?
Ami i krauti e il kraut-rock?
Ami le smorfie e l’amorfismo?
Ami l’anal e il minimal? (versione volgare)
Ami il minimo e il minimal? (versione normale)
Ami l’eco e lo sbieco?
Ami l’erba e i musicisti tutt’altro che in erba?
Se la risposta è no levati dal cazzo. Qua oggi si parla di un duo ravennate, Matteo e Diego (o meglio Mattiego), che ha saputo DAVVERO dare quella spruzzata di ingrediente segreto al grande quadro underground nostrano. Non scherzo! Quei due, in arte i CACAO, sono da tener d’occhio eccome.
Paragonati ai Battles ma meno math e oserei dire a tratti più originali, per lo meno come spirito e formazione, sfornano pezzi da cacare in braghe.  La particolarità sta nel fatto che essendo in due, uno si aspetta di trovare un basso e una batteria, o una chitarra e una batteria, o un mac con gingilli e una batteria, o un dhioporco e una batteria. E invece nonononononono. Nessuna batteria. Matteo suona la chitarra e Diego il basso. Matteo spalma sul basso di Diego dei piccoli tasselli polimorfi di esperienza mistica-sonora, e Diego da parte sua genera con le 4 corde una bella gettata di leganti acustici con cui crea la base forte e compatta che caratterizza i pezzi dei CACAO.
Insieme quei due creano un loop ipnotico, mistico, insomma ti sembra di vedere la madonna dopo un po’.
Però, PERÒ va detto che è necessario sentirli e vederli dal vivo. Forse se ci limitassimo a un ascolto di tracce mentre riposiamo nel nostro salotto o mentre cuciniamo delle crêpes al crack nella nostra cucina non avremmo bene idea del potenziale che tuona dai due piccoli alieni romagnoli e rischieremmo di fracassarci anche un po’ i maroni. Il genere è tutt’altro che semplice da ascoltare e la loro voglia di sperimentare sembra quasi schizofrenica, anche se mantiene una certa coerenza.
QUINDI GENTE! Acuire la vista, mettersi in prima fila, vederli suonare dal vivo! Dai! Dai! Dai!
Il cocktail dell'estate: whiskey, brown sugar, – latte + CACAO! Mescolate bene e buttate giù!


Eddaje,
Ljapah








(Per oggi nessun assaggio. Vi consiglio, anziché cercarli sul tubo, di cercare una data live).