lunedì 27 giugno 2016

50 anni e ancora siamo in esso solo per la moneta! Mothers of Invention - Freak Out! (1966)




Non sono il tipo da ricercare sdrucciolose coincidenze e/o lanciarsi in disamine cabalistiche nello sforzo di trovare inconsueti punti di contatto tra date, anniversari, spegniture di candeline o puttanatine di tal sorta, ma gli anni vanno avanti e mi sto facendo sentimentale. Sarà pur vero che oggi Freak Out! compie mezzo secolo. Sarà pur vero che tra la mia nascita e quella del caro vecchio mandrillone dello zio Frank Zappa ci intercorrono, guarda tu, 50 anni esatti, e passi anche che il Satiro Baffone ha concepito e assemblato questo incommerciabile doppio lp a 26 anni*, e che all'incirca 26 anni più tardi il Generale Prostata se l'è portato via.
Un mucchio di 50 e 26, non trovate? Sentite qui.
26 anni li ho io oggi, mentre scrivo, e neanche a dirlo questo disco tiene testa meglio di me al sedimentarsi delle polveri del tempo e all'avanzare delle tlarìne (termine finemente tecnico della Bassa). Con il mattatore siciliota di Baltimora condivido, oltre a questa strana ricorrenza temporale, un eloquente nasone sopra la media e l'amore per  il pelame facciale, nonchè parte del nome di battesimo (e spero pure la nerchia, a quanto si dice delle virtù del compositore). Ciò che non condivido del tutto con gli zappofili è l'idolatria totale per questo disco in particolare. Ma andiamo con ordine, cari, che già sento il fuoco sotto i calzoni che manco Giordano Bruno.
L'uscita di Freak Out! segna il primo assedio allo status quo da parte dei Mothers of Invention, ensemble disadattata e sopraffina che purtroppo in breve si ritroverà ad essere poco più di un giocattolo sfruttato e bistrattato dal nostro baffuto tiranno, che sempre più li considererà alla stregua di turnisti-mezzadri-puttane da affamare per poi dar loro un ingrato benservito. Checchè ne dica qualcuno, Freak Out! non è il primo doppio lp della storia, e nemmeno della storia del rock (Blonde on blonde di Bob Dylan lo precede di un mesetto abbondante, poi chiaro che i Mothers se lo magnano con gli ossicini e tutto, ma non perdiamo il filo); non è nemmeno mannaggiaapadrepio l'album più rilevante nello spaventevole monstrum discografico che costituisce l'universo zappiano. Non è nemmeno nella mia top 10 delle uscite del mustacchione più velenoso d'Amerika.
Ecco, mò ho detto la bestemmiaccia. Permettetemi però che mi esprima: chi dice che si tratta del miglior lavoro di Zappa non sa quello che dice, oppure fa il furbo sperando di essere l'unico della tavolata ad essere andato oltre Tengo na minchia tanta, o ad aver ascoltato almeno un pelo di lanugine di culo della mole di roba che Uncle Frank ha espulso in poco più di un quarto di secolo.
Ora, dopo tutte le cose brutte che ho profferito sul suddetto disco, perchè rompo i coglioni per dedicargli un post? Semplice. Perchè questo grumo di follia solarizzata è stato, resta e (credo) resterà a lungo un capolavoro fatto e finito. Perchè, al di là dell'effettivo (ed elevatissimo) valore intrinseco dell'opera, da qui deflagra l'allucinante cavalcata che si dispiegherà in quello che di fatto è un inscindibile ammasso compositivo-sovversivo e che si snoda, grossomodo, fino a Uncle Meat (1969), delineando un corpus concettuale totale di 6 album (me cojoni!). E poco importa se, alla luce degli splendori che messer Zappa ha composto in seguito, di primo acchito questo disco pare un'accozzaglia di rumorismi spiccioli, vocine e sboratine weird-beatnik. Questo esordio è un diktat, è il semaforo verde per tutti i freak in ogni loro accezione; da quel giorno gli strambi, gli sbagliati rinchiusi nelle soffitte coi loro dischi monghi e i bragoni a scacchi hanno capito che non erano i soli a non andar bene a nessuno e, nonostante tutto, a ridersela di gusto; ecco perchè a mio avviso il NON adorare incondizionatamente Freak Out è non solo lecito ma necessario, oltre che perfettamente in linea con la filosofia dei Mothers, che già nel '67 sfottevano sagacemente gli hippie, la psichedelia oberante, la mania per i Beatles e in generale chiunque fosse portato al prostrarsi facile a ciò che facesse tendenza e/o fosse dotato di uno scarso senso dell'umorismo (atto d'acume di difficile comprensione soprattutto nel fervore alternativo di quegli anni). Questo è il seme dello Zappa-pensiero, e a quanto pare un mezzo secolo non basta per rendere questo punto ben chiaro.
Cosa debbo dirvi sullo Zappone per illustrarne al meglio lo spirito? A 26 anni Frank si era già ammogliato e divorziato una volta, fumava come un altoforno da almeno due lustri, aveva strimpellato la batteria in un gruppo di pachucos con delle facce da ergastolani, si era spaccato di Edgard Varèse sin dalla tenera età e gli aveva pure telefonato con i cinque preziosi dollari ricevuti per un compleanno, aveva mandato a fare in culo in un colpo solo spaghetti e cattolicesimo dicendo che non facevano per lui (per metà son d'accordo dio faust), si era dato al barbonaggio vivendo per quasi un anno in uno studio di registrazione e rubando in giro pane e sigarette per sopravvivere, si era (quasi) fatto saltare in aria i coglioni con la balistite, aveva passato le meglio giornate disquisendo del suo amato rhythm & blues con il futuro porcodidio di Captain Beefheart, era stato pure al gabbio per aver composto colonne sonore di pornazzi made in Cucamonga (reato federale in quel tempo e luogo), si era già pigliato la gonorrea almeno una volta, aveva interamente trasorformato il suo alloggio in una scenografia per un film di fantascienza mongoloide a budget zero e ci aveva vissuto così com'era per un annetto o giù di lì, in una notte aveva conosciuto e sedotto la futura seconda moglie Gail (discreto pezzo de fémmena perdipiù) nonostante fosse un cazzo di cristone denutrito che non si lavava da grossomodo 4 mesi e coi baffi che sapevano di burro d'arachidi...
E potrei dirne altre, e solo per quanto riguarda lo Zappa pre-Freak Out. Ma alla fine ritengo che Zappa vada scoperto come i rasponi: da soli, adagio, come qualcosa che inconsciamente si crede non vada fatto ma che attira misteriosamente, e soprattutto nella massima comodità.
Ad ogni modo, penso che sia passato il concetto che questo tizio qua era dinamite a trenta chilometri di distanza, questo pisciava in culo con l'imbuto a chicchessia, niente cazzi.
Ecco, dentro questo zuppone di Freak Out si respirano un po' tutti quegli aromi dell'essere uno squisito outsider tra gli outsider e, fidatevi, in questa scodella c'è di che lordarsi il grugno. Chissenefotte se è uno dei tasselli zappeschi che riascolto meno volentieri, è comunque un imprimatur che conta pochi suoi pari all'interno del contesto culturale sessantiano tout court, e questo merito va oltre il semplice 'essere un disco fondamentale'.
L'esordio discografico più audace, farlocco e scalcinato della storia oggi compie mezzo secolo, e io sacrifico un bel vitellozzo alla sua memoria. Fumate, chiavate, lamentatevi e praticate la misantropia, al buon Frank farebbe un gran piacere.

Il vostro lontano parente del Thing-fish
Zio Carne

[* in realtà i 26 li doveva compiere a Dicembre, però suggetemi anche un po' il banano]

Mothers of Invention - Freak Out! / 1966 / Verve Records - MGM Records

venerdì 10 giugno 2016

Propongo un brindisi al mio autocontrollo

Scusate la mia lunga assenza, amici e nemici. Il problema è che entro ed esco dal carcere in continuazione e là non mi permettono di utilizzare un computer, tantomeno internet. Perciò…
Oggi mi farò perdonare. Parlerò di un gruppo il cui nome è tutto un programma, come si suol dire.
MORPHINE
A parte essere una delle mie sostanze preferite con la quale solitamente faccio del dolore un piacere, è anche il nome di un gruppo formatosi a Boston nel ’90. La particolarità di questo trio è racchiusa negli strumenti utilizzati e, di conseguenze, dalla musica che ne esce.
La formazione vede infatti il contributo magnifico di un basso senza tasti e a DUE corde (GENIALE ORCO DIO!!!), sax baritono e batteria.
Vedete, non possiamo imprigionare i Morphine in etichette quali Low Rock o quel che volete, come qualche figlio di buona donna ha cercato di fare. Lo stesso frontman, Mark Sandman, alle varie domande giornalistiche stile Qual è il vostro genere? rispondeva con riferimenti surreali e apparentemente senza senso come Baritone Exprience (in riferimento a Hendrix) o Grunge Implicito. E io dico... Quanto CAZZO era geniale? CAZZO. E sfuggente. Forse una delle poche persone che non aveva tutto ‘sto bisogno di definirsi con etichette.
Possiamo comunque supporre, per facilitare le cose, che l’utilizzo del sax baritono dà ad alcuni pezzi l’aria elegante del jazz, ma che il basso da parte sua spazza via con i suoi slide tutti i virtuosismi-cagata che ci si potrebbe aspettare dal jazz con delle grattate blues prolungate sfumatamente dalla voce calda e piuttosto malinconica di Sandman.
L’album che vorrei consigliarvi è Cure For Pain comunque. Uscito nel ’93. Tredici tracce. La prima direi che è un’apertura perfetta. Rispecchia paesaggi desolati, che ne so, vecchi tristi e sdentati, bambini feriti, faccio vagare la mia fantasia malata fin a che… non inizia la seconda e meravigliosa traccia, la mia preferita dell’album: Buena. Suadente, compare la voce di Sandman, molto dinamica, mai cattiva e con parole pronunciate in modo strano, come se avesse i denti scheggiati. CHE FIGATA È?! E poi, nel rit. il sax fa un giro veramente sfacciato che riempie il pezzo di personalità senza eccedere e senza coprire mai la batteria, talmente leggera che sembra che Deupree la stia suonando con due stuzzicadenti.
I’m Free Now, pezzo che trovo onesto e trasparente. Soave… Come se fosse stato fatto per danzarci sopra fino a che non inizia All Wrong, che merita già solo per come inizia, con She had black hair like ravens crawling over her shoulders. FIGATA MAESTRA.
Candy, canzone ipnotizzante. Il sax che segue la voce, la voce che segue il sax. Ascolti questo pezzo e non capisci più niente.
A Head With Wings, Sandman era convinto di avere una testa con le ali e di vedere lontano. Aveva ragione a quanto pare. Ridondante ma non stancante il giro di basso, canzone alleggerita dall’assolo di sax e poi Sandman che torna a sostenere di avere la testa con le ali. Chiusura degna di nota, da locale jazz per grandi signori segretamente viziosi.
In Spite Of Me, FIGATA COLOSSALE. E qui compare il signor mandolino che rende il tutto adorabile e leggero. Sembra di volare insieme a Peter Pan nei cieli sopra l’Isolachenonc’è. Tenerissima questa canzone, mi fa VERAMENTE rammollire.
Thursday è la seconda mia preferita anche se… come dicevo In Spite Of Me è veramente BELLA. In Thursday il basso è talmente grattante e cattivo che te lo fotteresti (nel senso che volete voi). E la chiusura ragazzi è l’apice orgasmico che non ci si aspettava, come se i Morphine avessero perso ogni briciolo di pazienza e avessero deciso finalmente, dopo innumerevoli Thursday Thursday Thursday, di venire. Il sax che impazzisce diventando acutissimo e il basso che chiude come una tempesta quello che è sicuramente il pezzo più sexy dell’album.
Eeeeeee inizia così la traccia che dà il nome all’album, nonché quella che contiene una delle frasi più figherrime di tutti i tempi, I propose a toast to my self control. Questo pezzo forse è il più malinconico, sia nel testo che negli pseudo arpeggi eseguiti dalle dita calde di Sandman sulle sue adorate DUE corde. Bello l’effetto stonatissimo nello stacchetto pre-rit.
Mary Won't You Call My Name? pezzo musicalmente allegro, con una vena country. Solo a me ricorda un po’ Elvis quando la musica si ferma, eccetto il charleston, e Sandman ripete Mary Won't You Call My Name?
Let's Take a Trip Together, suadentissimo pezzo. Sembra di sentirlo in lontananza, anche se te lo spari nelle orecchie, dio cane. Che magia. Mi piace assai questo pezzo. Quella specie di bending che Sandman fa con il basso è come un rintocco incessante che ti accompagna mentre cammini con la tua croce sulle spalle… O con la scimmia, dipende da come uno prende la vita. Questo pezzo mi uccide. È BELLISSIMO. Voce ecoica… Sospiri… Sandman sicuramente sa come fare a portarsi a letto una o più donne.
E poi parte Sheila… che sembrerebbe parlare di una che si chiama Sheila e ha un gatto su cui esercita un grande potere. In realtà sospetto ci sia sotto ben altro. Pensateci, stronzi! Mica vi devo dire sempre tutto io.
E alla fine arriva Miles Davis’ Funeral. Minimale. Con la comparsa delle percussioni. Di una delicatezza infinita. Il disco così come è partito se ne va in modo fugace lasciandoti, devo dirlo, l’amaro in bocca. Un po’ ti ammazzeresti, perché è bello. Perché è suadente (oggi sto chiaramente abusando di questo termine). Perché è sensuale. Perché è triste. Perché è.

Ascoltatelo e non uccidetevi. Dovete prima ascoltare anche gli altri.

P.S. Sarebbe stato troppo banale parlarvi della fine dei Morphine. Ma sappiate che è una gran fine.


Con varia ed eventuale morphina in corpo,
Ljapah sfuggita alla gattabuia




Morphine – Cure For Pain / 1993 / Rykodisc



giovedì 2 giugno 2016

Pleonasmi vol. I, Pierrot Lunaire - Pierrot Lunaire



Beh beh beh, una volta in Italia si sapeva suonare, ed è anche una considerazione del menga dato che anche oggi si sa suonare. Più difficile è contestare che gli anni '70 siano stati un periodo godereccio per questo paese, però sinceramente non mi tira il culo di elencare alla rinfusa la pletora di gruppi di qualità sbocciati in quel decennio, fate vobis. Questo disco è stato recensito urbi et orbi da gente molto più competente di me, sulla rete e sulla carta (Gaboli e Ottone, 2007), quindi che posso dire? Mancano quasi le percussioni, il che contribuisce a renderlo un lavoro molto dolce e fiabesco, insieme agli stupendi dialoghi tra synth, piano e chitarre acustiche. Poi grazie alla nerchia del Roberfrìppo* che è un gran bell'album! la roba più moscia di allora fa sembrare la roba di oggi stallatico al gelsomino.

In mutande, con un'erezione settantiana
Sancio Mattanza

* v. catabasi e anabasi dello Zio due recensioni fa

Pierrot Lunaire - Pierrot Lunaire / 1974 / It

"Hana mana ganda / Perchè lui dice augh?" Nechochwen - Heart of Akamon


I pellerosse mancavano, devo dirlo.
A voler essere fiscali c'era già stato qualche tentativo, ma al momento mi vengono in mente solo i Blood of the Black Owl usciti sempre sotto Bindrune Recordings (la stessa che ora ha sotto contratto i Panopticon) e i precoci – orpo, era il '92! – Xibalba, che però cianciavano di Maya e affini. 
Ero partito ben disposto nei confronti di quest'album per via di un entusiastico commento, letto chissà dove, di A. Lunn (il signor Panopticon) il quale deve aver disegnato anche il logo dei Nechochwen. Beh, in effetti il nostro duo, oltre a saper scegliere una copertina, dimostra una padronanza notevole nell'accostare un folk (non così spiccatamente indiano, invero) e un black assai brioso e mai anusofsatancvlt. Le sonorità non sono innovative se si vuole, ma hanno una freschezza di composizione e arrangiamenti notevole. Grazie a repentini passaggi tra un movimento musicale e l'altro Heart of Akamon si conferma come un disco particolarmente riuscito, che se mi son disturbato a recensirlo vorrà pur dire qualcosa dio efebo.
Entriamo un poco di più nel merito della musica: a uno scream dignitoso si accostano un cantato pulito e cori vari che strizzano l'occhio ai fasti norvegesi, il che non guasta mai; le chitarre, – degne di nota – a volte hanno accenti che ricordano quelle dei Drudkh, come nel riff che parte verso la metà di "Lost on the Trail of the Setting Sun", altre volte si avvicinano ai lavori degli Agalloch o dei Panopticon, ottenendo tuttavia dei risultati originali; la batteria ha un'architettura armonica, niente blast beat a cazzo di cane nascosti dietro ogni angolo, ma quello che ci vuole quando ci vuole. Sporadicamente compare pure un flauto costipato (altri direbbero "minimalista"), ma considerando che lo suona il chitarrista cantante compositore glielo si può condonare come peccatuccio veniale. 
Menzione di merito va ai testi, assai pregievoli, incentrati su cultura e peripezie varie dei nativi americani. Nel libretto ogni canzone ha il suo bel spiegone, che in genere se lo potessero ficcare nel baugigi, ma stavolta no, ci sta, come una ghirlanda di scalpi all'entrata di un tepee.
Tirare le somme è semplice. Heart of Akamon si affida a un tema in larga misura innovativo per il black (anche per quello made in Cascadia) e lo sviluppa bene, seguendo una parola d'ordine: varietà. Ed è difficile stufarsi di andare su e giù per le rapide di questo album, intervallate da trip sciamanici e assalti a rotta di collo ululando a Manitù.

Danzando intorno al fuoco con Giglio Tigrato, il vostro
Sancio Mattanza

Nechochwen / Hearth of Akamon / 2015 / Bindrune Recordings